Il criterio "garantista" nell'accertamento del fatto impone al Giudice uno stretto ancoraggio al thema decidendum.
Norme come quelle dell'art. 65 c.p.p. , che prevede la contestazione alla persona sottopsota ad indagini " in forma chiara e precisa " del fatto che le è attribuito e la comunicazione degli elementi di prova a suo carico, e quella di cui all'art. 521 c.p.p., che prevede l'obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, hanno lo scopo di vincolare il giudizio esclusivamente ed esaustivamente al "fatto" così come enunciato nel capo di imputazione.
Ma, nella prassi, non sempre è così.
Proprio una settimana fa il prof. Spangher, nel corso del convegno nazionale LAPEC svoltosi a Lecco, denunciava questa "tendenza" dei giudici a sconfinare nell'accertamento del fatto e ad "andare oltre" quanto enunciato nel capo di imputazione : la contestazione mutevole e, per così dire "fluttuante" , mina alla base uno dei principi del rito accusatorio perchè fa venir meno il concetto di "giudice terzo" e pregiudica l'altrettanto basilare principio del contraddittorio.
E ancora , tale prassi, viola l'inviolabile dirittto di difesa, atteso che la difesa deve modularsi su di un capo di imputazione "certo" e non " cangiante".
Riscontriamo molte volte la tendenza dei Tribunali ad allargare le maglie della imputazione e ad applicare, ad esempio , aggravanti mai contestate.
Così quel Tribunale che a fronte di una imputazione denotata come truffa semplice in tale guisa :
" 640 c.p. perchè con artifizi e raggiri consistiti nell'aprire per nome e per conto della società.....omissis...il conto corrente n...omissis...presso il Banco...omissis...., si procurava un ingiusto profitto consistito nella appropriazione di € 141.571,95 ricevuti nelel circostanze di cui al precedente capo A) in danno di....omissis........ tutti soci accomandanti ai quali era stata taciuta tanto l'apertura del conto corrente quanto l'incasso della predetta somma ",
emetteva sentenza di condanna nei confronti dell'imputato per il reato di cui all'art. 640 c.p. aggravatato dall'art. 61 n. 11 c.p.( abuso di relazioni familiari) così diversamente qualificato il reato sub B) .
Investita della questione la Corte di Appello Bari III sezione penale ( sentenza n. 3264/2011 ) , ha messo un pò di ordine nella questione affermando quanto segue :
"...accogliendo in parte il motivo di appello sub 3) deve concordarsi con la difesa dell'appellante nel senso che : non appare corretto il riconoscimento del concorso dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 c.p. in relazione al reato di cui al capo B).
Invero si riconosce, ex art. 521 c.p.p. il potere del Giudice di " dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nella imputazione", anche più grave e fermi restando i limiti di competenza, nell'ipotesi in cui il fatto accertato contempli e contenga tutti gli elementi giuridici di un diverso e più corretto reato ( in tal senso la Giurisprudenza di legittimità consolidata sul punto, tra cui per tutte, Cass. Pen. sez. VIn. 2749, Mocavero).
Ciò detto, però, nel caso di specie, nell'operare tale qualifica nuova dei fatti, non appare possibile ravvisare una circostanza non presente nella contestazione del PM, poichè non descritta nella narrativa della rubrica.
Sicchè, non essendo stata contestata dal PM l'aggravante concernente l'abuso delel relazioni familiari, la stessa non può essere ritenuta".
In tale occasione il ragionamento della Corte, strettamente correlato all'enunciato delle norme, ha evitato l'affermarsi di un caso di imputazione "fluttuante".