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Una particolare applicazione del principio dell'errore di fatto in ambito venatorio

1) La vicenda
La vicenda trae origine da una contestazione, effettuata da parte di guardie appartenenti al W.W.F., ad un cacciatore che veniva trovato in possesso di alcuni capi di selvaggina abbattuti e specificatamente di una ventina di tordi e di un esemplare di merlo. La norma asseritamente violata era quella dell’art. 18 co. 1 lett. A) e art. 30, co. 1 lett. A) della legge 157/92, per aver abbattuto un esemplare di merlo il 22 gennaio, in periodo nel quale la caccia a tale volatile era chiusa.
La difesa dell’imputato, nel corso del giudizio di primo grado, chiedeva al Giudice, in via principale, di mandare assolto l’imputato per errore sul fatto ex art. 47 cod. pen. In subordine chiedeva la derubricazione del reato ex art. 30, 1° co. Lett. A) a art. 30, 1° comma, lettera h (abbattimento, cattura o detenzione di mammiferi o uccelli non cacciabili).
Il Tribunale di Bari, Sez. Dist. Di Rutigliano, disattendendo la tesi difensiva, condannava il prevenuto alla pena di mesi due di arresto, disponendo la confisca della selvaggina e dell’arma, oltre al pagamento delle spese processuali.
I difensori dell’imputato proponevano rituale e tempestivo gravame alla Corte D’Appello territorialmente competente, che riformava la pronuncia di primo grado mandando assolto l’imputato perché persona non punibile per errore sul fatto che costituisce reato.
2) L’orientamento garantista della Corte
La sentenza emessa dalla Corte D’Appello di Bari stimola la riflessione sul concetto di errore nell’ambito dell’attività venatoria.
La dottrina definisce l’errore come una condizione intellettuale per cui un oggetto del mondo esteriore non è conosciuto come realmente è, ma in maniera falsa o inesatta.
Si è sostenuto che la problematica in disamina si colloca nel più generale orizzonte della divergenza tra il voluto e il realizzato, per ricorrere in tutti i casi in cui l’agente, nel rappresentare a se stesso un fatto materiale, ignori alcuni dati della realtà o erri su uno di essi. L’errore giuridicamente rilevante è dunque quello che riguarda l’attività conoscitiva del soggetto agente, il quale non solo deve rappresentarsi una cosa diversa da quella reale, ma deve altresì crederla e ritenerla in un dato modo, non rispondente alla realtà.
L’errore incide dunque sull’elemento soggettivo del reato (dolo), escludendolo.
E’ noto che la dottrina e la giurisprudenza sogliono distinguere tra l’errore sul fatto dall’errore sul precetto (o sul divieto). Quest’ultimo è quello che cade sulla legge penale incriminatrice o su una legge extrapenale richiamata dalla norma penale incriminatrice, regolato dalla disposizione dell’art. 5 cod. pen., che non esclude il dolo (e quindi non esclude la punibilità), a differenza della diversa ipotesi di cui all’art. 47 cod. pen.
La giurisprudenza ritiene che l’errore di fatto che esclude la punibilità è quello che cade su di un elemento materiale del reato e che si risolve in una difettosa percezione che alteri il processo volitivo.
Sulla scorta di tale insegnamento, la giurisprudenza si era attestata sulla generalizzata esclusione della ricorribilità dell’errore quale causa di esclusione della punibilità, nell’ambito dell’esercizio venatorio; frutto molto spesso di un approccio frettoloso e superficiale alle varie fattispecie sottoposte al suo esame, un approccio  talvolta preconcetto, che sfociava in una “presunzione di colpevolezza” in capo al cacciatore.
E’ nota la sent. Cassazione, sez. 3^, 25.09.1995 n° 10352, che aveva statuito che: “non rileva l’errore quanto alla individuazione di specie selvatiche protette (in particolare i ghiri), poiché l’esercizio venatorio è soggetto ad abilitazione conseguibile previo esame, tra l’altro, sulla legislazione venatoria e la zoologia applicata alla caccia, con prove pratiche di riconoscimento delle specie cacciabili”.
Senonchè, la Corte D’Appello del capoluogo pugliese, facendo buon governo di tutte le emergenze processuali, ha ritenuto di dover riconoscere al caso di specie la ricorrenza dell’errore di fatto ricadente su un elemento materiale del reato.
Si badi bene, l’imputato non è andato assolto per aver ignorato la norma incriminatrice (infatti in sede di esame questi affermava di ben saper che il quel periodo la caccia al merlo era vietata), ma per non aver percepito la presenza del merlo (di sesso femminile), erroneamente confuso con i tordi.
La Corte territoriale ha di fatto ritenuto preponderanti alcuni aspetti emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, quali la foschia delle prime ore dell’alba nel periodo invernale; il carniere enormemente sproporzionato, perché costituito da venti esemplari di tordi e da un solo esemplare di merlo (che, com’è noto, hanno analoghe abitudini comportamentali ed alimentari, frequentando gli stessi luoghi ed essendo specie entrambe comuni e numericamente uguali in natura, porta ragionevolmente a ritenere che, se l’imputato avesse voluto violare la norma incriminatrice, certamente, in quella giornata, non gli sarebbero mancate le occasioni per catturare altri merli).
Rilevante, infine, è risultata la differenzazione tra il merlo di sesso maschile (di colore nero), dal merlo di sesso femminile, soprattutto se giovane di età (di colore verde olivastro), dovuta al dimorfismo sessuale presente nella specie merlo. La difesa dell’imputato ha infatti passato in rassegna le analogie tra il tordo ed il merlo di sesso femminile (specie entrambe appartenenti alla famiglia dei turdidi), il cui colore è molto simile al tordo e differisce da quello di sesso maschile per il dimorfismo sessuale che caratterizza tale specie.
3) L’applicazione del principio dell’errore di fatto in ambito venatorio
In definitiva  la Corte territoriale ha fatto corretto uso del potere giurisdizionale attribuitole, perché se è vero che la norma deve essere astratta per poter essere applicata ad una molteplicità di casi, è anche vero che il potere giurisdizionale implica che il giudice di merito, nell’applicare la norma al caso concreto, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.
Infatti, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dall’imputato, al fine di stabilire, con valutazione ex ante - e secondo un iter logico motivazionale - se tale condotta integri estremi di reato.
Il convincimento del giudice deve necessariamente realizzarsi attraverso l’apprezzamento di tutti gli elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso, e la relativa valutazione non può limitarsi all’esame isolato dei singoli elementi, ma deve essere globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica.
Il monito, per i seguaci di Diana, deve dunque essere quello di prestare la massima attenzione nell’esercizio dell’attività venatoria, avendo bene a mente che la diligenza loro richiesta non è certo quella comune e ordinaria del c.d. “uomo della strada”, per scongiurare l’abbattimento di specie cui la caccia è vietata, attenzione che deve peraltro essere acuita dal fatto che in natura alcune specie sono molto simili fra loro, benché per alcune di esse la caccia sia consentita e per altre sia inibita, di essere consapevoli che in caso di abbattimento di specie non cacciabile non potrà fondatamente sostenersi l’esclusione della punibilità per errore sulla norma (non sapevo che non si poteva abbattere), ma devono comunque confidare nella obbiettività ed imparzialità della Giustizia!

 

Articolo scritto da: Avv. Pieralberto Palombella il 09/02/2011
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