Disamina dell’art. 1 della legge 199/2010
La legge 199 del 2010 pubblicata sulla G.U. l’1.12.2010 entrerà in vigore il 16 dicembre 2010.
L’articolo 1 dal titolo “Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a dodici mesi”, prevede che ( “fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e comunque non oltre il 13 dicembre 2013”) la pena detentiva inferiore a 12 mesi possa essere eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza.
Propagandata come “svuota carceri”, la legge appare un timido tentativo di alleggerire la pesante situazione carceraria ( 69.000 detenuti a fronte di 43.000 posti disponibili e di una capienza massima tollerabile di 63.000).
Infatti pur proponendosi di applicare la detenzione domiciliare alle pene carcerarie, anche se costituenti parte residua di maggior pena, la norma dispone una serie di divieti ( i soliti!) per persone condannate per certi reati ( quelli elencati nell’art. 4 bis della legge 354/1975, anche in questo caso, sono ostativi ), nonché per i delinquenti abituali, professionali, per i detenuti sottoposti a regime di sorveglianza particolare ai sensi dell’art. 14 bis delle legge 354/1975.
Inoltre, ai sensi dell’art. 58 quater legge 354/1975 ( richiamato dal comma 8 dell’art. 1 legge 199/2010) anche coloro che, mentre scontavano la pena in misura alternativa, hanno commesso il reato di cui all’art. 385 c.p., o hanno subito la revoca della misura, non potranno accedere al beneficio.
A tali preclusioni che possiamo definire ormai “abituali” da parte del legislatore, che li utilizza sia che si occupi di prescrizione, che di recidiva o di misure alternative al carcere, la legge 199 ne aggiunge un'altra che, di fatto, a parere di chi scrive, impedirà l’applicazione della detenzione domiciliare ex lege a numerose persone detenute e cioè la ricorrenza della “concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga”, e la sussistenza di “specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti” ( art 1 comma 2 lett. d) e temo che la recidiva possa essere ritenuta una possibilità concreta che il condannato ricommetta altro reato.
Inoltre il beneficio può essere negato quando “non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”.
A tal proposito il comma 4 prescrive che la direzione del carcere trasmetta al Magistrato di Sorveglianza una relazione sulla condotta tenuta dalla persona richiedente durante la detenzione corredata dal “verbale di accertamento della idoneità del domicilio”.
Sembra di capire che la direzione dell’Istituto, forse avvalendosi dell’UEPE, debba, in presenza di una istanza di detenzione domiciliare, procedere al sopralluogo presso il domicilio indicato dalla persona detenuta al fine di verificarne la idoneità per il prosieguo dell’espiazione della pena in tale regime.
Non è dato comprendere cosa il legislatore voglia intendere per “domicilio idoneo”, e se tale concetto va riferito allo spazio a disposizione della persona, oppure alla convivenza o vicinanza con altre persone nella stessa situazione.
Innanzitutto appare strano che ci si preoccupi della idoneità del “domicilio” mentre non si fa nulla per rendere più umane ( e quindi idonee alla persona umana) le condizioni dei carcerati in sovrannumero in celle anguste e sovraffollate, che sono costate al nostro Paese una condanna per la violazione dell’art. 3 ( divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo ( vedi l’arret de chambre Suljamanovic C Italie emesso dalla a Corte Europea dei diritti dell’uomo il 16.7,.2009).
Anche il concetto di effettività, riferito al domicilio, non appare chiaro.
Infatti le norme della detenzione domiciliare contenute nell’ordinamento penitenziario non parlano di dimora “effettiva” o “idonea” ma di “privata dimora” e semmai riferiscono il termine idoneo alla misura in se stessa e non certo al luogo dove deve essere eseguita ( vedi art. 47 ter, art. 47 quinquies legge sull’ordinamento penitenziario) .
Tali previsioni appaiono, quindi, orpelli inutili, e volti solo ad appesantire il lavoro di difensori, operatori delle direzioni dei carceri e Magistrati di Sorveglianza che dovranno richiedere, allegare e confutare ( a seconda dei casi e dei ruoli) anche tale documentazione.
E’ ovvio che il condannato deve essere ritenuto idoneo, in assenza di condizioni soggettive ostative, a scontare la pena presso la propria abitazione o altro domicilio da costui indicato con il consenso di chi vi abita, ma l’abitazione non può essere oggetto di esame di idoneità. A cosa si dovrebbe aver riguardo? Al numero delle stanze? Alla vicinanza con abitazioni di altri detenuti domiciliari ? così ragionando, a mio parere, ci imbatteremmo in parametri che nulla hanno a che vedere con l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione carceraria.
Diverso è l’aspetto relativo alla tutela delle persone offese. E’ ovvio che lo stalker non potrà beneficiare della detenzione domiciliare nella dimora dove vive la persona offesa, ma appaiono ipotesi limitate ai casi di violenza, appunto, “domestica” . Sarà cura del difensore, in queste evenienze, consigliare al cliente di ottenere la disponibilità di una dimora diversa e alternativa rispetto a quella familiare.
Alla luce di tale breve disamina sulle condizioni soggettive per la concessione del beneficio appare ictu oculi che al Magistrato di Sorveglianza viene data ampia possibilità di negare la possibilità della detenzione domiciliare, opponendo alla richiesta anche il solo pericolo di recidiva ( che il Giudice non esiterà a desumere da un certificato del casellario particolarmente nutrito o dalla pendenza di altri procedimenti penali a carico del richiedente), pertanto basterà un niente perché il richiedente “ottenga” ( si fa per dire) il rigetto.
In definitiva, posto che chi sta scontando una pena detentiva per una sentenza irrevocabile o non ha beneficiato della sospensione della pena ( e quindi ha altri precedenti) , oppure è stato condannato ad una pena superiore a 2 anni, e che, a questo punto, eliminando i reati di estorsione e rapina aggravata e tutti gli altri di cui quelli di cui all’art. 4 bis legge 354/1975, potranno teoricamente beneficiare della legge n 199 i detenuti per reati di spaccio, di rapina non aggravata, di furto, di lesioni, di tentato omicidio, di maltrattamenti ( per citare i reati più ricorrenti) che abbiano già scontato buona parte della sanzione.
Praticamente , la otterranno i condannati non recidivi, o coloro che pur recidivi offrano ampie rassicurazioni al Magistrato circa la impossibilità o improbabilità di ricadute recidivanti.
A meno che i Magistrati di Sorveglianza, non comincino a creare una Giurisprudenza garantista che limiti la detenzione carceraria soltanto alle ipotesi di reato più gravi ed a persone con un grado di pericolosità elevato.
Filippo Castellaneta